L’affermazione con cui Verter Turroni introduce la sua arte è tanto netta quanto immediatamente contraria a ciò che si pone davanti agli occhi: “Mi interessa il lato brutto della materia”. Indubbiamente, Turroni si pone nella scia di que- gli artisti che, nel secolo scorso, non hanno rinunciato alla corporalità dell’arte, evidenziando il gusto e il sentore dei materiali in disuso; artisti del calibro, per citarne soltanto uno e il più immediato, di Alberto Burri. Accanto a questo gigante della nostra arte tipicamente italiana, come a tutti gli altri che avremmo potuto elencare, Turroni appone la preponderanza del “mental costruire”, più tipica della cultura del progetto, un’altra bandiera tipicamente italiana. Ed ecco che quella materia, solo momentaneamente sorda e grezza, muta orientamento e comincia un moto pen- dolare che si muove nell’arco di traiettoria tra gli estremi della distruzione e della costruzione. Conquista tempo e spazio.

E proprio nel curare e nell’approfondire questa oscillazione, il nostro artista si è affermato negli anni, oltre trenta di lavoro lo segnano, come uno degli indiscussi protagonisti di quell’avventura che percorre il labile crinale tra la libera creazione dell’arte e la rigorosa progettazione del design. Un campo operativo che, a partire dalla metà degli anni ottanta, ha sempre più marcato uno dei molti rivoli con cui prende forma la sempre più espansa contem- poraneità. La molta fisicità che trasmettono la sua pittura e anche la scultura, entrambe legate a un’ineccepibile e non sostituibile grande dimensione, dei primi anni del secondo dopoguerra, riprende l’aprirsi della forma a nuove possibilità della forma stessa (sinteticamente, questa era la definizione che Umberto Eco dava all’Informale degli anni cinquanta), lasciandosi alle spalle quella inconcludente controversia tra figurativo e astratto (c’è qualcuno che vuole ancora perdere tempo in questo dibattito?) che oggi non permetterebbe più nessuna alleanza se non quel- la, almeno per il nostro artista, di poter continuare a lavorare con grande maestria con i suoi materiali di elezione: vetroresina, cemento, metallo e feltro. E proprio su questo fronte tra azione e visione tornano utili le parole che Giorgio Vasari ha speso nelle sue “Vite” (1555), libro che dà inizio alla storia dell’arte (detto molto sinteticamente), per quello straordinario ed eccentrico pittore che sulla fine del quattrocento fu Piero di Cosimo:

“Fermavasi talora a considerare un muro dove lungamente fusse stato sputato da persone malate, e ne cavava le battaglie dei cavalli e le più fantastiche città e i più grandi paesi che si vedessero mai; similmente faceva dei nuvoli dell’aria.”

IL RISVEGLIO DELL’ANGELO

Marco Bazzini

E per quanti non si dovessero accontentare dello storico aretino, ci sono anche le parole del grande Leonardo, recuperabili nel suo Trattato di pittura: “Io ho già veduto nei nuvoli e muri macchie che m’hanno desto a belle invenzioni in varie cose.” Simile esperienza possiamo fare oggi con le macchie, le sgorature, le patacche, le chiazze, le ossidazioni, ecc. che sulla superficie “lavorata” da Turroni non sono più da considerarsi un oltraggio alla purezza della materia ma immagini in potenza, ovvero un atto di resistenza all’atto di potenza. Al verbo lavorare (nella sua forma di partici- pio passato) sono state poste le virgolette proprio per evidenziare con maggiore forza l’operosità di quest’artista, la sua irrinunciabile manualità, la sua piena adesione all’atto di creazione che nella potenzialità della materia non trova inerzia, ma una vita che scaturisce tra l’agire e il non agire. Un movimento primitivo, questo, che è anche lotta per il controllo del processo, sia esso un’ossidazione o un’impronta non importa, perché il suo modo di procedere è una macchina fenomenologica che non attende del tutto alla visione di colui che opera. Le immagini e le forme che na- scono dal suo operare sono custodi dell’apparizione, permettono di mantenere quella doppia distanza tra la natura e la pittura (ma anche la scultura) che porta all’impermanenza. Da homo faber, Turroni, ha, quindi, necessità di un continuo pronunciamento nella materia che, da alchimista contemporaneo, sa trasformare nel suono più armonico per gli occhi. Già la soglia, nel suo essere un luogo di passaggio, segna un limine precario, così come l’imperma- nenza altro non è che una transitorietà. Nell’accoppiare questi due termini che prendono voce nel titolo di questa mostra, è come se Turroni riproponesse in chiave contemporanea quel fecit fecit che è possibile leggere in un noto quadro di Tiziano, l’Annunciazione della Chiesa di San Salvador a Venezia. Se nel pittore veneziano il fare e rifare porta verso una disfatta della pittura (è il Tiziano dell’ultimo periodo), il passaggio del passaggio del nostro sposta tutto verso la contemplazione, che è uno stato di grazia, dell’uomo in agire. Nell’arte di Turroni, quindi, viviamo un ef- fetto di contraccolpo dove le soglie dell’immagine sono attraversabili e allo stesso tempo attraversate. Un’operazio- ne che disattiva le funzioni comunicative ma che attiva l’immancabile angelo che dalla bruttezza sempre si risveglia.

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti alla nostra newsletter